La purezza assoluta nei colori moderni: una chimera inutile e modaiola.
Devo essere sincero: sono stato in dubbio, fino all’ultimo, se pubblicare questo articolo o semplicemente cancellarlo e relegarlo per sempre nell’oblio. Non certo per paura, o timore di chissà cosa; ero parecchio indeciso solo perché mi sentivo come quando, ad un bambino, si comunica che Babbo Natale non esiste.
L’idea mi è venuta quando un giorno, sfogliando per dei confronti le brochures di parecchi fabbricanti (in tutto una ventina circa), l’occhio mi è caduto su quella frase ricorrente, scritta in varie
lingue: “solo olio e pigmento, e nient’altro”. Più o meno tutte uguali, con piccole differenze sintattiche, ma il senso era quello. La prima impressione è stata quella che ogni fabbricante tende a sottolineare l’assoluta purezza del proprio prodotto. Per fare un parallelismo, è come se il fornaio di fiducia dicesse che il proprio pane è “solo acqua e farina”. Cosa forse possibile (non mi intendo di panificazione), ma immagino che un pane prodotto così non debba essere un granché.
Io faccio il pittore, ma ho anche una certa esperienza in produzione dei colori. In genere – quando parlo – mi riferisco all’olio, ma non ho il minimo problema a far da me tempere, alchidici, smalti, acrilici, acquerelli e pastelli. Di conseguenza, conoscendo a fondo il comportamento di ogni singolo pigmento in un determinato legante, mi accorgo subito delle bugie (grandi e piccole) che quasi tutti i produttori scrivono sui loro depliants. E quando dico “quasi tutti”, mi rendo conto che in quel “quasi” è da ricercare l’onestà di quei pochi, pochissimi fabbricanti che non trovano interesse ad affermare di poter offrire l’impossibile, sperando di ammaliare l’utilizzatore poco avvezzo ai tecnicismi puri. Non è neanche una questione di costi; in pittura esistono cose possibili e cose impossibili, tutto qui.
Vediamo, allora, dove sta l’inghippo.
Uno dei malintesi indotti, che torna molto utile per la sua stessa natura di termine estremamente elastico nel significato, è basato proprio sul significato della parola “legante”. Con questa parola, la quasi totalità dei pittori intendono l’olio (o la gomma, o la resina, od il polimero) che tiene insieme il pigmento. Quest’ultimo, com’è noto, non è solubile nel legante, non si scioglie; diventa colore utilizzabile quando si lega – appunto – con una sostanza in grado di tenerlo insieme, formando un film resistente e duraturo. Molti fabbricanti, quindi, fanno passare sotto il termine “legante” le miscele più svariate e fantasiose.
Tanto per capirci, vi cito qualche ingrediente di uso comune nella produzione di leganti ad olio. Molti sono del tutto sconosciuti ai più, ma entrano nella stragrande maggioranza dei colori che spremete ogni giorno sulle vostre tavolozze:
– olii di lino, noce, papavero, cartamo, soia;
– olio di Tung;
– olio di ricino;
– olio di perilla;
– standolii (in genere di lino e di papavero);
– agenti stabilizzanti ionici/anionici;
– calciti varie;
– derivati dell’alluminio (idrossido, idrato, silicato, stearato, bi-tristearato, etc.);
– barite;
– bentonite.
Va da sé che, sostanzialmente, posso comporre un legante come meglio credo (per facilitare la macinazione, per risparmiare, etc.) dichiarando che il mio prodotto è “esclusivamente pigmento e legante”. Non è il massimo della trasparenza, ma questa è la situazione.
Il punto non è che non si debbano usare queste sostanze, le quali – quando ben dosate – producono un reale miglioramento del prodotto, più o meno evidente; la questione, piuttosto, è la brutta abitudine di dichiarare cose non vere, con l’intento di far bella figura, e poter dire “io sono il detentore assoluto della più classica tradizione”.
I fabbricanti più attenti (coscienziosi?), a costo di rischiare la critica degli utilizzatori meno esperti, che sono anche i più numerosi, evitano frasi ad effetto e – più realisticamente – dichiarano la vera situazione. Ecco qualche esempio.
Sulla brochure dei colori ad olio “Ferrario 1919” si legge: “Una progettazione attenta ed accurata, che si avvale di pigmenti pregiati e purissimi nella massima concentrazione”. In pratica, sta dicendo: “abbiamo fatto il possibile per tenere la massima carica colorante, per quanto compatibile con lo specificità del pigmento, che vi assicuriamo essere della migliore qualità in circolazione”. Onesto, credibile ed affidabile.
Sul depliant dei Mussini (Schmincke) possiamo leggere: “Un buon colore ad olio per artisti non consiste di solo olio e pigmento”. Molto sintetico, ma dice tutto.
A proposito di Schmincke, ha fatto un certo scalpore il fatto che sia stato indicato sul tubetto, nel colour-index dei rossi di cadmio, la presenza di PW21 (solfato di bario). Sono impazziti? Hanno peggiorato il prodotto? Niente di tutto questo. In realtà, con un minimo di conoscenza tecnica sulla produzione dei colori, si capisce subito il motivo di tale scelta. In breve, il PW21 è considerato un pigmento bianco a tutti gli effetti, e come tale deve essere indicato nell’elenco dei pigmenti usati per un dato colore. Alla Schmincke avrebbero potuto usare una carica diversa (es. carbonato di calcio rivestito), senza l’obbligo di indicarne la presenza. Ora, il rosso di cadmio, specialmente quello scuro e porpora, è uno di quei pigmenti particolarmente problematici, per i quali è obbligatorio l’uso di una carica. In parole povere, quando macinato con olio (qualsiasi olio) produce un impasto gommoso, estremamente fibroso, non lavorabile, di spiccata tendenza alla separazione (risalite copiose di legante) e filaccioso. Nel giro di un anno, se in tubetto, diventa un pastone inutilizzabile, buono solo per la pattumiera. Le soluzioni erano due: usare una rilevante quantità di carbonato di calcio (e di conseguenza molto meno pigmento), facendo un figurone (noi usiamo solo legante e pigmento!!!), oppure optare per una carica molto più efficace (e costosa) che potesse essere aggiunta in quantità minime, lasciando più spazio alla carica pigmentaria, ottenendo un impasto ottimo e, nel contempo, una potenza colorante superiore. I chimici della Schmincke hanno preferito (e meno male…) la seconda soluzione, decisamente più vicina ad un risultato di alta qualità. Senza considerare che i rossi di cadmio non risentono minimamente di cariche più aggressive come la barite…
I pigmenti problematici sono piuttosto numerosi. Ne cito qualcuno, che non può assolutamente essere lavorato in assenza di cariche. Di conseguenza, qualsiasi fabbricante dichiari che queste tinte sono formulate con “solo olio e pigmento”, semplicemente non va preso sul serio.
– PR108 Rosso di cadmio (ne abbiamo appena parlato).
– PW6 Bianco di titanio (forma un impasto fibroso e gommoso, non utilizzabile).
– PB29 Blu oltremare sintetico (come il bianco di titanio, ma meno marcato).
– PBr24 Giallo di Napoli “moderno”, molto bello ed utile, un titanato di cromo ed antimonio. Come il bianco di titanio, ma molto più ostico, al punto che anche il PW21, in piccole dosi, non riesce a correggerlo. Molto usato da tanti fabbricanti, ha bisogno di grandi quantità di carica inerte, altrimenti è inutilizzabile.
– PB15/PG7 ovvero tutte le ftalocianine. Sono di potenza cromatica talmente violenta che la sola ipotesi di non caricarle a dovere sarebbe pura follia. Si otterrebbe un impasto molliccio ed inutilizzabile (“brucerebbe” qualsiasi altro colore in mescolanza).
– PB36 turchese di cobalto. Stesso comportamento del bianco di titanio.
– PO43 Arancio antrachinone. Il famigerato PO43, colore meraviglioso ed estremamente stabile, deve essere supportato da medio/alte quantità di carica. In assenza di esse crea un bell’impasto, che però secca troppo lentamente (circa 40 giorni solo in superficie), soffre di marcato effetto bronzing e – nel giro di qualche anno – si spegne e diventa opaco. Inoltre, essendo costoso, un PO43 “olio e pigmento” avrebbe un prezzo spropositato a fronte di un colore di scarsa qualità.
– PBk6/PBk7 Nero di carbonio. Come per il PO43, solo che in più produce un impasto rigidissimo, simile al burro congelato. Che ce ne facciamo di un colore così?
Un discorso a parte meritano gli ossidi di ferro sintetici, i cosiddetti colori di marte. Specialmente i rossi, pur consentendo una macinazione in assenza di cariche, migliorano sensibilmente nel tono e nella luminosità se si aggiunge poca calcite. La potenza cromatica di questi colori è nota (potrebbero sopportare aggiunte mostruose di carica inerte), e pure il loro basso prezzo. Perché ostinarsi a fare un rosso di marte con solo olio e pigmento, ottenendo un discreto colore, quando se ne può ottenere uno eccezionale con solo il 5% di calcite, con costi invariati?
Insomma, avrete capito che la materia è talmente vasta che si potrebbero scrivere centinaia di libri, in aggiunta alle centinaia che esistono già, in tutte le lingue.
Il senso di tutto questo lungo discorso, e la questione che mi ha spinto a farlo, è la mia incomprensione verso un atteggiamento antipatico e piuttosto diffuso. Oggi non esistono praticamente più prodotti scadenti, e non abbiamo mai avuto così tante possibilità di scelta. Però, se e quando si dovesse avvertire che il fabbricante dei nostri colori preferiti ci sta mentendo, o sta facendo il furbo, o ci sta inducendo a credere in qualcosa di impossibile, perché non valutare di cambiare marca?
Un saluto a tutti, ed alla prossima.
La purezza nei colori a olio è quindi realmente una chimera, non solo poco praticabile, potenzialmente dannosa ma è un buon parametro per valutare l’onestà e la trasparenza delle aziende produttrici. La piccolissima aggiunta da parte mia è più che altro un invito: date uno sguardo alle descrizioni dei top di gamma Ferrario e Maimeri.
Io ho sentito rumore di unghie sui vetri..
Questo articolo è stato scritto da Mimmo Ceccarelli, pittore di rara abilità, grandissimo esperto di materiali per belle arti e persona estremamente disponibile e paziente, che tanto mi ha insegnato.
A lui va il mio personale ringraziamento per aver messo, ancora una volta, una piccola parte della sua enorme esperienza a disposizione di tutti, consentendo la pubblicazione di questo ed altri articoli.
Facciamone tutti buon uso!